19 giugno 2007

Iconografia: 1. Immagini di Carl Schmitt

Versione 1.1
Premessa

Ormai internet è diventato anche un immenso archivio di immagini. Incominciano ad apparire parecchie foto ed illustrazioni riguardanti Carl Schmitt. Di ognuna di esse verrà data la fonte stessa dell'immagine, cioè la sua url ed il contesto in cui si trovano. Nei limiti del possibile verrà data una didascalia dove si cerca di descrivere il soggetto, il luogo, il momento e le circostanze in cui l'immagine è stata prodotta.


1.

Fonte. Suo contesto: Carl Schmitt – eine deutsche Frage als Gestalt -Wege und Umwege einer Theorie- und Rezeptionsgeschichte – Schärfster Kritiker des Weimarer Parlamentarismus, Kronjurist des „Dritten Reichs“, Vater der Verfassungsväter – die Beinamen, die Carl Schmitt gegeben worden sind, sind zahlreich und betonen seinen jeweiligen Einfluß in den verschiedenen Regierungssystemen, in denen er publiziert hat. Auch wenn seine tatsächliche Wirkung teilweise fraglich ist, hält das Interesse an seinen Schriften – auch von linker Seite – nach wie vor an. Warum eigentlich? Olaf M. Braun.


2.

Fonte. Suo contesto.

3.

Fonte. Suo contesto.

09 giugno 2007

Due parole sul nazismo di Schmitt

Versione 1.0

Leggo oggi la recensione di Antonino Scalone a Carlo Angelini. Trattasi di un libretto di 41 pagine che non ho ancora visto, pur avendolo ordinato all’editore. Mi limito davvero a due parole riservandomi altrove un più ampio intervento critico, ovvero rinviando alla mia presentazione a “Posizioni e concetti”, dove sono già compresi alcuni dei saggi incriminati. La questione dei diritti è un poco confusa. Non sono io particolarmente esperto o interessato alla materia. Mi auguro solo che i testi che qua e là vedo uscire non impediscano il mio progetto di una raccolta completa di tutti gli scritti maledetti ed incriminati di Carl Schmitt, cioè quelli del periodo nazista, su cui in Francia Zarka si sta dando tanto da fare.

L’osservazione elementare è quanto mai semplice. Schmitt fu un uomo del suo tempo. Gadamer dice da qualche parte che era considerato da suoi coetanei come il più intelligente della loro generazione. A parte i crimini da codice penale, non si può incolpare nessuno per le sue opzioni politiche. In altre parole, dovremmo smetterla di ritornare su questo stantio ritornello del nazismo di Schmitt ed incominciare invece ad interrogarci sulla nostra demonizzazione di un periodo storico travagliato dell’Europa e della Germania.

Solo così, facendo prima noi una nostra autoanalisi, potremo poi occuparci di un periodo della vita e della produzione di Schmitt che resta alquanto limitato nella vita lunghissima e nella produzione scientifica di Carl Schmitt, che visse 97 anni e scrisse per oltre 60. Il nazismo durò 11 anni. L’impegno di Schmitt nel nazismo occupa i primi tre anni iniziali, quando il nazismo era capace di aumentare in misura considerevole per tutti le basse pensioni e di far pagare le tasse ai capitalisti. Adottava cioè quelle misure di cui Weimar si era dimostrata incapace. Pertanto, non dovrebbe riuscire strano che il nazismo riscuotesse un vasto consenso popolare.

Quanto poi alla tesi che l’opera di Schmitt sarebbe intrinsicamente nazista in tutto il suo corpus, presuppone che Zarka ci sappia dire lui cosa il nazismo fu. E rispettosamente ho i miei dubbi che Zarka ci possa dare siffatti. Ma se però fosse come lui dice, allora egli avrà finalmente dato al nazismo quella legittimità e dignità politica che proprio nessuno (pena la galera!) è disposto a rinoscergli, almeno in pubblico. Ed ecco che veniamo al problema della libertà di pensiero. Non credo che ce ne sia tanto e che gli intellettuali di oggi, vivendo in regime di libertà, siano granche migliori e più affidabili di quelli di ieri, che vivevano in condizioni certamente più difficili.

Quanto agli intellettuali emigrati io che sono uomo semplice trovo poco edificante il fatto che siano tornate al seguito delle armate alleato che occupavano e mettevano a ferro e fuoco quella che era stata la loro patria. Se io fossi vissuto in quegli anni ed avessi amato la mia patria al modo in cui Socrate ci insegnò si debba amare la propria patria, non avrei lasciato la Germania o l’Italia, qualunque fosse stata la mia sorte. Non essendo stato capaci del sacrificio supremo a cui è tenuto un soldato chiamato alle armi, io non ritengo che gli “emigrati” abbiano titolo a dare lezioni di etica pubblica a quanti sono rimasti in patria.

Il discredito crescente in cui ogni giorno cade la nostra classe polititica – la Casta – dovrebbe farci giudicare con minore severità le classi politiche del famigerato ventennio, le cui responsabilità che furono costretti ad assumersi vanno forse ricercate altrove. Dovremmo essere capaci di ripensare la storia del XX secolo senza i paraocchi ufficiali che ci sono stati imposti dai vincitori e dalle classi che da allora si sono succedute al potere con mirabile continuità degna della trasmissione nobiliare dei privilegi per nascita. Non per nulla – leggiamo – il nostro Quirinale repubblicano ci costa quattro volte la monarchia inglese!

03 aprile 2007

Sollen wir Carl Schmitt ein Denkmal setzen?

Foto dell’archivio privato Giesler pubblicata a p. 44 della Frankfurter Allgemeine Zeitung del 17 marzo 2007. Si riferisce alla festa per il 90° compleanno di Carl Schmitt in Plettenberg l'11 luglio 1978. Alla foto che occupa mezza pagina si accompagna un articolo di Timo Frasch con titolo: Sollen wir Carl Schmitt ein Denkmal setzen?, cioè: Dobbiamo innalzare un monumento a Carl Schmitt? Non trovo purtroppo un link che consenta la lettura dell’articolo. Ne riassumo più sotto il contenuto, integrandone le notizie con altre da me raccolte e soprattutto aggiungendo i miei commenti e le mie osservazioni.




Il disegno qui sotto riportato offre una didascalia delle persone presenti. La foto è stata ripresa tramite scanner da fotocopia della pagina della FAZ inviatemi da Gerd Giesler.

Post Scriptum: den Verleger Dr. Johannes Broermann vom Verlag Duncker & Humblot. Er steht in der zweiten Reihe rechts außen, schräg hinter Prof. Hans Schneider (nr. 6).

Si possono riconoscere seduto al centro Carl Schmitt con sua destra seduta la nipote Dusanka Otero Schmitt ed a sinistra Carlos Otero Schmitt. Segue a sinistra del figlio Carlos pure di profilo l’unica figlia di Schmitt, Anima Schmitt sposato Otero e premorta al padre. A sinistra di Anima Frau Anni Stand, la governante di Schmitt che lo ha assistito fino agli ultimi suoi anni. A sinistra di Anni Stand in basso rivolto verso il fotografo è Hans Schneider, docente di diritto pubblico all’università di Heidelberg. A sinistra di Dusanka, in piedi, si vede Ernst Jünger, amico e corrispondente di Carl Schmitt fin dal 1930. Dietro Juunger al n° 10 del disegno si vede Ernst Hüsmert, un vecchio e fedele amico di Carl Schmitt. A sinistra di Hüsmert al n° 9 del disegno si trova il pubblicista Ralf Schroers. Subito a sinistra si vede (n. 13) il busto di Nikolaus Sombart. Dietro Sombart al n. 8 del disegno si vede il sindaco di Plettenberg Dr. Baberg. Dietro Schmitt, in piedi, leggermente a destra al n. 24 si trova la sorella di Schmitt la signora Auguste Schmitt. Ancora a sinistra al numero 11 del disegno si vede il giornalista Johannes Gross. Dietro di lui, a sinistra, al n. 12 si vede il prof. Joseph H. Kaiser, scomparso da pochi anni. Accanto a Kaiser si vede con gli occhiali al n. 14 il giornalista Sepp Schelz. Davanti alla signora con il vestito a quadri si trova al n. 15 Peter Scheibert, uno storico dell’Europa orientale che ha insegnato a Marburg e che negli ultimi anni viveva a Berlino. Sta parlando con lui Piet Tommissen (n. 16), di cui si vede la mano alzata. Di fronte a Tommissen si trova il genero (n. 17)di Schmitt, Alfonso Otero Varela, che era stato assistente di Alvaro d’Ors, tramite il quale conobbe Anima che divenne poi sua moglie. Distante al n. 18, accanto al signore occhiali e cravatta a quadri, si vede Günther Krauss, che fu allievo di Schmitt negli anni trenta. In questo Blog ho pubblicato le sue memorie in tedesco e in traduzione italiana. Il signore con occhiali e cravatta a quadri (n. 19) è Julien Freund. La signora accanto a Freund, al n. 26 del disegno è Liselotte Jünger. Dietro Liselotte si vede appena la testa di Christian Meier (n. 20), storico dell'antichità all’università di Monaco di Baviera. Poco distante (n. 21) si vede appena il volto di Ernst-Wolfgang Böckenförde, docente di diritto costituzionale a Freiburg i. Br. Gli è accanto a figura intera (n. 22), Gerd Giesler, editore ed amico di Schmitt. È rimasto fuori della foto Rüdiger Altmann (n. 23), che appare invece al centro di un capannello di tre perssone intente a conversare fra di loro. Ben visibile al n. 25 il dott. Bakowski, il medico di famiglia, dietro Anima Schmitt e Anni Stand.
Post Scriptum: nella didascalia della foto pubblicata nella FAZ è stato omesso, una persona identificata successivamente. Si tratta dell’editore Dr. Joannes Broemann della casa editrice Duncker & Humblot. Si trova nella seconda fila a destra in fuori, in posizione obliqua dietri il prof. Hans Schneider (nr. 6).

Links disponibili sulle persone raffigurate nella Foto:

30 marzo 2007

Fresco di stampa: Posizioni e concetti

Posso finalmente annunciare l’uscita dell'edizione italiana di “Posizioni e concetti" di Carl Schmitt. Ne ho ricevuto questa mattina un esemplare. L’espressione fresco di stampa è quanto mai appropriata: sulla copertina era ancora fresco l’inchiostro del Logo dell'editore GIUFFRÈ che si è macchiato toccandolo io incautamente con la mano. L’uscita del volume mi è di sprone a curare questo Blog, che ho alquanto trascurato da diversi mesi, sopraffatto dai temi dell’attualità politica italiana e internazionale. Del resto, di questa mia distrazione è responsabile lo stesso Schmitt. Traducendo “Posizioni e concetti” mi sono accorto che il nostro pensiero si forma proprio in un rapporto costante con la nostra attualità politica. Il pensiero di Schmitt non sarebbe stato quello che conosciamo se Schmitt non si fosse sempre rapportato alla sua epoca e al suo paese. Non ci si isola ed astrae impunemente dal proprio tempo. Nel mio rapportarmi al mio tempo ho potuto riscoprire l’attualità di Schmitt nella misura in cui i problemi umani permangono identici nel tempo. A mio avviso, l’ostracismo verso Schmitt da parte dei suoi odierni detrattori nasce dalla consapevolezza che Schmitt può ancora parlare e ci dice cose che come cittadini europei turbano la nostra coscienza. Ma il discorso diventa qui complesso e dobbiamo rinviarlo ad altra sede.



Di seguito la foto di altre mie edizioni di Carl Schmitt: Il Custode della Costituzione (1981), La Dottrina della Costituzione (1984), Teologia Politica II (1992), La Dittatura (2006). Avevo iniziato a tradurre Schmitt in un periodo in cui nessuno voleva tradurlo perché troppo cattiva e compromettente era la sua fama. Poi è arrivato il periodo del successo editoriale e commerciale ed alcuni titoli mi sono stati sottratti mentre li stavo traducendo. Di qualche titolo avevo perfino terminata la traduzione, quando ho visto il titolo uscire presso altro editore per la mano di un altro traduttore. Non me la sono presa più di tanto e sono lieto di non essere stato il solo traduttore di Schmitt: un onere che è bene condividere con la più vasta comunità scientifica possibile. Mentre però altri pur avendolo tradotto, prendono lo distanze da questo Autore, io conservo una piena adesione al pensiero del Maestro, che ho avuto l’onore di conoscere negli ultimi anni della sua vita e in un certo modo di essere stato ammesso alla sua Scuola.


Altre fatiche sono in programma, ma al momento non posso anticipare i piani editoriali.

05 gennaio 2007

Annotazioni autografe di Schmitt a PuB: pag. 112

Pag. 112


TESTO TEDESCO

wirtschaftlichen Struktur an dem überlieferten Verfassungsschema von l789 und 1848 fest. Auch die Weimarer Verfassung von 1919 entspricht im wesentlichen dem alten Typus und könnte, wie Rathenau richtig gesagt hat, von 1848 sein. Dagegen sind in dieser Hinsicht, das heißt für die staatsorganisatorische Anerkennung der neuen wirtschaftlichen und sozialen Probleme, die bolschewistische und die faschistische Verfassung überaus modern und eigentliche “Wirtschafts-Verfassungen”. Ich erkläre mir das vorläufig folgendermaßen: Gerade nicht intensiv industrialisierte Länder wie Rußland und Italien können sich heute eine “Wirtschafts-Verfassung” geben. In hochentwickelten Industriestaaten dagegen ist die innerpolitische Lage ganz beherrscht von dem Phänomen der “sozialen Gleichgewichtsstruktur” zwischen Kapital und Arbeit, Arbeitgeber und Arbeitnehmer. Dieses Phänomen, wohl von Otto Bauer zuerst erkannt und benannt, ist dann von O. Kircheimer in einem interessanten Aufsatz in der Zeitschrift für Politik (Bd. 17, 1928, S. 596) staats- und verfassungstheoretisch behandelt worden. Wenn es heute zum hochentwickelten modernen Industriestaat gehört, daß Arbeitgeber und Arbeitnehmer einander mit ungefähr gleicher sozialer Macht gegenüberstehen und jedenfalls keine dieser Gruppen ohne einen furchtbaren Bürgerkrieg der anderen eine radikale Entscheidung aufdrängen kann, so sind auf legalem Wege soziale Entscheidungen und fundamentale Verfassungsänderungen nicht möglich, und alles, was es an Staat und Regierung gibt, ist dann mehr oder weniger eben nur der neutrale (und nicht der höhere, aus eigener Kraft und Autorität entscheidende) Dritte. Eine Suprematie des Staates gegenüber der Wirtschaft ist nur mit Hilfe einer geschlossenen, ordensmäßigen Organisation durchführbar. Sowohl der Faschismus als auch der kommunistische Bolschewismus bedarf zu seiner Überlegenheit über die Wirtschaft eines solchen “Apparates”. Die soziologischen Benennungen, die Herr von Beckerath hier gebraucht (S.141), sind terminologisch nicht klar, weil sie Partei, Orden und Kaste nicht scharf genug trennen. Doch ist es für eine staatstheoretische Betrachtung wesentlich, auch im sprachlichen Ausdruck zu unterscheiden. Wie soll der Staat der höhere und mächtigere Dritte sein, wenn er nicht eine starke, festformierte, in sich geschlossene und daher nicht wie die Partei auf freier Werbung beruhende, hierarchische Organisation zur Verfügung hat? Der ungeheuren neuen Aufgabe ist nur eine solche neue Organisation gewachsen. Es gehört zum Schicksal Deutschlands, daß es bereits vor hundert Jahren eine großartige philosophische Theorie vom Staat als dem höheren Dritten produziert hat, die von Hegel über Lorenz von Stein zu den großen Nationalökonomen (wie Schmoller und Knapp) geht, die dann einer ziemlich rohen Verflachung anheimfiel und leicht als Lehre vom Obrigkeitsstaat verschrien werden konnte, weil ihr in der soziologischen Wirklichkeit keine neue, mit soziologischem Bewußtsein der neuen Situation geschaffene Organisation entsprach, sondern nur ein gut diszipliniertes und technisiertes Beamtentum in Verbindung mit einer traditionalistisch verhärteten, national verwirrenden Pluralität von

TRADUZIONE ITALIANA

È sorprendente come due Stati come la Russia bolscevica e l’Italia fascista siano i soli che abbiano fatto il tentativo di rompere con il cliché costituzionale tradizionale del XIX secolo ed esprimere le grandi modifiche nella struttura economica e sociale del paese anche nell’organizzazione statale e in una costituzione scritta. I grandi Stati industrali egemoni (dei quali invero l’Italia non fa parte) malgrado tutte le modifiche alla loro struttura sociale ed economica si mantengono fermi allo schema costituzionale tradizionale del 1789 e del 1848. Anche la costituzione di Weimar del 1919 corrisponde nell’essenziale al vecchio tipo e potrebbe essere del 1848, come Rathenau ha detto giustamente. Al contrario, sotto questo aspetto, cioè il riconoscimento organizzativo statale dei nuovi problemi economici e sociali, la costituzione bolscevica e quella fascista sono assai moderne e vere e proprie “costituzioni economiche”. Io al momento mi spiego ciò nel modo che segue: proprio paesi non intensamente industrializzati possono darsi oggi una “costituzione economica”. Negli Stati industriali altamente sviluppati, invece, la situazione politica interna è del tutto dominata dal fenomeno dell’“equilibrio sociale strutturale” fra capitale e lavoro, datori di lavoro e lavoratori. Questo fenomeno, invero dapprima riconosciuto e definito da Otto Bauer, è stato poi trattato da O. Kirchheimer in un interessante saggio nella Zeitschrift für Politik (Bd. 17, 1928, p. 596). Se oggi è tipico del moderno Stato industriale altamente sviluppato il fatto che datori di lavoro e lavoratori si contrappongano l’un l’altro con un potere sociale all’incirca eguale e in ogni caso nessuno di questi gruppi può imporre all’altro una decisione radicale senza una terribile guerra civile, allora non sono possibili per via legale decisioni sociali e modifiche costituzionali fondamentali, e tutto ciò che resta allo Stato ed al governo è più o meno solo il ruolo del terzo neutrale (e non in più alto grado, che decide per forza ed autorità propria). Una supremazia dello Stato nei confronti dell’economia è attuabile solo con l’aiuto di un’organizzazione chiusa e ordinata. Tanto il fascismo quanto il bolscevismo comunista hanno bisogno di un simile apparato per la loro superiorità sull’economia. Le definizioni sociologiche, che il Signor von Beckerath usa qui (p. 141), non sono terminologicamente chiare, perché esse non separano abbastanza nettamente partito, ordine e casta. Ma questo è essenziale per una trattazione di teoria dello Stato, anche per distinguere nell’espressione linguistica. Come può essere lo Stato il terzo più alto e più potente, se non ha a disposizione un’organizzazione gerarchica, forte, solidamente strutturata, in sé conclusa e perciò non come il partito che si basa sulla libera propaganda? All’altezza del nuovo immane compito è soltanto una nuova siffatta organizzazione. Fa parte del destino della Germania il fatto che già cento anni fa si sia prodotta una grandiosa teoria filosofica dello Stato come terzo superiore, che va da Hegel attraverso Lorenz von Stein ai grandi economisti nazionali (come Schmoller e Knapp) , che poi cadde in un appiattimento assai grossolano e poté essere facilmente screditata come dottrina dello Stato autoritario, perché ad essa nella realtà sociologica non corrispondeva nessuna nuova organizzazione, creata con consapevolezza sociologica della nuova situazione, ma solo una burocrazia ben disciplinata e tecnicizzata unita con una pluralità di dinastie, tradizionalisticamente irrigidita, nazionalmente confusa, il cui fondamento ideale era il concetto politicamente paralizzante di legittimità . Il fascismo invece con buon motivo conferisce valore all’essere rivoluzionari.

04 gennaio 2007

Annotazioni autografe di Schmitt a PuB: pag. 50

Pag. 50



TESTO TEDESCO

einen sehr auffälligen Verzicht auf die rein historische Kontemplation, die sonst gerade die Stärke und den Reichtum des Buches ausmacht.

Das “allgemeine Moralgebot” und das Völkerrecht, dessen Normen die Staatsräson unterworfen werden soll, sind nun leider keine unproblematischen Größen, die am Ende eines von solchem historischem Wissen erfüllten Werkes als Schluß erscheinen könnten. Obwohl der Verfasser den “verhüllten und schwebenden Dualismus” bei Ranke ablehnt, weil er “nicht die letzte mögliche Lösung des Problems bedeuten konnte” (S. 487), und obwohl er sich mit persönlicher Entschiedenheit zum allgemeinen Moralgebot bekennt, ergibt sich aus dem Werk keine Entscheidung. Das Problem liegt nämlich gar nicht in der inhaltlichen Normativität eines Moral- oder Rechtsgebotes, sondern in der Frage: Wer entscheidet? Die große staatsphilosophische Literatur des 17. Jahrhunderts, insbesondere Hobbes und Pufendorff, haben dieses quis judicabit? immer betont. Meinecke spricht wohl davon, daß es über den Staaten keinen Richter gibt (S. 505, vgl. auch S. 371, 262), aber das Problem als solches ignoriert er, vielleicht aus Antipathie gegen alles, was an etwas Juristisches erinnert. In der Sache läßt es sich nicht ignorieren. Natürlich wollen alle nur Recht, Moral, Ethik und Frieden; keiner will Unrecht tun; aber die in concreto allein interessante Frage ist immer, wer im konkreten Fall darüber entscheidet, was rechtens ist; worin der Friede besteht; was eine Störung oder Gefährdung des Friedens ist, mit welchen Mitteln sie beseitigt wird, wann eine Situation normal und “befriedet” ist usw. Dieses quis judicabit zeigt, daß innerhalb des Rechts und des allgemeinen Moralgebots wiederum ein Dualismus steckt, der diesen Begriffen die Fähigkeit nimmt, als einfache Gegensätze der “Macht” entgegenzutreten und zu ihr in einer Pendelschwingung sich zu bewegen. Das Recht, insbesondere das Völkerrecht, ist nämlich entweder einfach Legitimität des status quo und sanktioniert den bestehenden Besitzstand; dann dient es der Macht der Besitzenden. Oder es begründet Ansprüche der Nichtbesitzenden und erscheint dann als ruhestörendes, revolutionäres Prinzip. Dieses Problem der Legitimität des status quo und der normalen Situation, das ich öfters, zuletzt in meiner Schrift über “Die Kernfrage des Völkerbundes” behandelt habe, sei hier nur angedeutet. Es muß den Aspekt des grundlegenden Dualismus von Kratos und Ethos völlig ändern.

Ist so das allgemeine Moralgebot in sich nicht ohne weiteres überzeugend, so hat auch die Sanktionierung, die es bei Meinecke erhält, etwas Unentschiedenes. Ein aus Gründen der Machtpolitik vorgenommener Verstoß gegen dieses Gebot wird als “tragische” Schuld angesehen. Das mag sie sein; aber das ist keine Sanktion, sondern ein Übergang ins Ästhetische*. “Tragisch” ist keine Kategorie, die, wenn man einmal ein moralisches Gebot ernst nimmt, die letzte Antwort auf einen Konflikt geben könnte*. Das Wort ist höchstens ein Ausdruck der inneren Problematik dieses moralischen Gebotes selbst, eine Umschreibung tiefen Bedauerns und der Erschütterung, die aus der historischen Einsicht in die Ohnmacht des Gebotes oder in die Unvermeidlichkeit der Durchbrechung entsteht, aber es kann nicht der

TRADUZIONE ITALIANA

una rinuncia assai vistosa alla contemplazione puramente storica, che peraltro costituisce la forza e la ricchezza del libro.

Il “comando morale universale” e il diritto internazionale, alle cui norme deve sottomettersi la ragion di Stato, non sono purtroppo grandezze non-problematiche, che possano apparire come conclusione al termine di un’opera piena di un siffatto sapere storico. Benché l’autore rifiuti il “dualismo velato ed incerto” in Ranke, perché « non può significare l’ultima possibile soluzione del problema » (p. 487), e benché aderisca con personale risolutezza al comando morale universale, nessuna decisione risulta dall’opera. Il problema, cioè, non si trova affatto nella normatività contenutistica di un comando morale o giuridico, ma nella domanda: chi decide? La grande letteratura di filosofia dello Stato del XVII secolo, in particolare Hobbes e Pufendorff, ha sempre accentuato questo quis judicabit? È vero che Meinecke parla del fatto che non ci sono giudici al di sopra degli Stati (p. 505, cfr. anche p. 371, 262), ma egli ignora il problema in quanto tale, forse per antipatia contro tutto ciò che ricorda alcunché di giuridico. Di fatto non lo si può ignorare. Naturalmente tutti vogliono il diritto, la morale, l’etica e la pace; nessuno vuol fare del torto; ma la sola domanda in concreto interessante è sempre chi decide nel caso concreto su ciò che è giusto; in che cosa consista la pace; cosa è un disturbo o una minaccia della pace, con quali mezzi viene eliminato, quando una situazione è normale e “pacificata”, ecc. Questo quis judicabit mostra come all’interno del diritto e del comando morale universale si annida di nuovo un dualismo, che toglie a questi concetti la capacità di opporsi come semplici contrapposizioni al potere e di muoversi rispetto ad esso in un’oscillazione del pendolo. Il diritto, specialmente il diritto internazionale, è perciò semplicemente legittimità dello status quo e sanziona lo stato esistente del possesso; serve quindi al potere dei possidenti. Oppure fonda le pretese dei non possidenti e appare quindi come un principio rivoluzionario che disturba la quiete. Questo problema della legittimità dello status quo e della situazione normale, che io ho trattato spesso, in ultimo nel mio scritto sulla “Questione centrale della Società delle Nazioni”, sia qui soltanto accennato. Deve cambiare completamente l’aspetto del fondamentale dualismo di kratos ed ethos.

Se il comando morale universale in sé non è senz’altro convincente, allora anche l’approvazione, che esso riceve in Meinecke, ha qualcosa di indeciso. Una violazione di questo comando fatta per motivi di politica di potenza è vista come colpa “tragica”. Può essere; ma questa non è una sanzione, bensì un passaggio all’estetico . “Tragico” non è una categoria, che – se per una volta si prende sul serio un comando morale – possa dare l’ultima risposta ad un conflitto. La parola è tutt’al più un’espressione della problematica interna di questo stesso comando morale, una perifrasi del profondo rincrescimento e dello sgomento, che nasce dalla vista dell’onnipotenza del comando o dell’inevitabilità della violazione, ma non può essere la conclusione convincente di un’opera…

ANNOTAZIONI
(si guardi il testo tedesco)

Al momento non riesco purtroppo ad ottenere una migliore visualizzazione sulla rete. Saranno fatto più tentativi. Ciò mi è necessario perché spero di ottenere in questo modo l’aiuto richiesto da chi può ben vedere. Il corsivo corrisponde alle parti sottolineate, in tutto o in parte, da Schmitt nell’esemplare conservato nel Nachlass. Queste sottolineature potrebbero ben essere un’intenzione di Schmitt di procedere ad una evidenziazione del testo tanto più che in un caso (quis judicabit) il corsivo esiste già nel testo stampato. Evidente sempre l’inserzione di una nota a margine nel punto qui segnalato segnalato con un aterisco*. Più convincente come punto di inserzione della nota il primo asterisco (Ästetische). Meno chiare le intenzioni di Schmitt dopo la parola könnte*, due righe più sotto. Sembra che si tratti di una sola nota aggiunta consistente in tre righe manoscritte, di cui oltre al nome Kierkegaard non riesco a capire nulla. Confesso pubblicamente i miei limiti. I segni sul bordo sinistro della pagina non mi sono chiari nella loro estrema brevità.

Annotazioni autografe di Schmitt a PuB: pagina E

Pag. E