22 aprile 2006

Schweizerische Rundschau, 1934: Sugli scritti di Carl Schmitt

IL SUPPLIZIO DI SAN CASCIANO
Waldemar Gurian: le denuncie di un ex-allievo

1.
DECISIONE E ORDINE
Sugli scritti di Carl Schmitt *

(Schweizerische Rundschau, Nr. 7 del 1° ottobre 1934)

Carl Schmitt nella sua opera Romanticismo politico (1ª ed. Monaco 1919) ha ironizzato sulla prontezza e mutabilità di Adam Müller nel porsi di buon grado a disposizione del dominatore di turno. Ma cosa capiterà a lui stesso quando i futuri storici si occuperanno delle sue creazioni e della sua evoluzione? Sarà molto facile mettere Carl Schmitt contro Carl Schmitt. Essi accerteranno come lo stesso autore che ancora nel 1925 (Cattolicesimo romano e forma politica, Monaco) aveva scritto “ogni ordine è un ordine giuridico e ogni Stato è uno Stato di diritto” e quindi attribuiva l’ordine del diritto nel 1934 alle “composizioni lessicali esteriori” mediante “le quali si realizza un vagare generalizzante oppure un dilettantesco quanto-come-anche” (Sui tre tipi del pensiero giuridico, pag. 12) e relativizza lo Stato di diritto come un concetto dialettico di stampo liberale oggi superato (Compagine dello Stato e crollo del Secondo Impero, pag. 17). Essi si meraviglieranno come un docente di diritto pubblico in pochi anni abbia dato tre diverse valutazioni sulla seconda parte della costituzione di Weimar. Nella Dottrina della costituzione (Monaco 1928) si fissa in una critica più tranquilla e più obiettiva che questa messa insieme dei diritti e dei doveri fondamentali dei tedeschi è un “accostamento di programmi e di disposizioni positive in una sintesi piuttosto folle”, alla base della quale “vi sono le convinzioni e i contenuti più diversi di tipo politico, sociale e religioso” (pag. 30). Quattro anni più tardi invece proprio alla seconda parte della Costituzione, in contrapposizione con la prima, viene offerta un particolare apprezzamento. “Il nucleo della seconda parte principale della Costituzione di Weimar merita di essere liberato delle contraddizioni interne e delle carenze compromissorie e quindi di essere sviluppato secondo la sua interna conseguenzialità. Se ciò riuscirà, così la logica di un’opera costituzionale tedesca sarà salvata”. (Legalità e legittimità, Monaco 1932). Ma dopo la scomparsa del governo Papen che per lo meno si era occupato dell’ipotesi di una modifica costituzionale inerente alla seconda parte, Carl Schmitt riscopre che la seconda parte era un folle ammucchiamento, cioè privo di sostanza. Egli rappresenta questa opinione con ben altra asprezza di toni che nel 1928, in quanto nel frattempo Adolf Hitler ha eliminato la Costituzione di Weimar: questa parte è “un programma di partito intercorrentizio che non poteva dare alla Costituzione alcuna sostanza. Esso contiene mescolati insieme principi liberal-democratici, social-democratici e cattolico-centristi, che erano in sé privi di un legame” (Compagine dello Stato.... pag. 44).
Forse già oggi alcuni conoscitori e osservatori della carriera di Carl Schmitt si meravigliano per il successo con cui egli è potuto divenire dopo il 1933 un giurista eminente del regime nazionalsocialista, il quale crea una “dottrina dello Stato nazionalsocialista”, dirige i docenti di scuola superiore dell’Unione dei Giuristi tedeschi nazionalsocialisti e assicura la sua apologia delle esecuzioni del 30 giugno con il leggiadro titolo "Il Führer difende il diritto” (“Rivista dei giuristi tedeschi”, 1.8.1934). Per quanto siano smemorati i contemporanei essi comunque dovrebbero ricordare che Carl Schmitt già nel 1925 aveva preso parte come oratore ad assemblee del Centro (vedere il suo opuscolo apparso nel 1925 per la casa editrice del partito renano di centro: La Renania come oggetto della politica internazionale), cosa che non gli impedisce oggi di unificare la politica “cattolica di centro” con quella “internazional-marxista” (Compagine dello Stato, p. 14); che egli con un suo parere abbia contribuito ad indurre il presidente Hindenburg a sottoscrivere l’accordo di liquidazione tedesco-polacco connesso al piano Young; che egli prestò consulenze giuridiche al governo Brüning ed ebbe durante questo periodo il coraggio di opporsi pubblicamente a una modifica della Costituzione contro le richieste dell’opposizione nazionale, compresa quella nazionalsocialista; che infine solo nel 1933 divenne compagno di partito di Adolf Hitler. Sembra poi piuttosto singolare, che sia proprio Carl Schmitt ad impegnarsi per l’esclusione di tutti gli elementi non ariani quali titolari della vita giuridica. Ma non era Carl Schmitt che ringraziava per ricorsi decisivi dei non ariani come Moritz Julius Bonn e Erich Kaufmann il quale per anni aveva rappresentato innanzi alla corte internazionale dell’Aia gli interessi della Germania contro la Polonia. E cosa dice oggi egli sul fatto che ancora nel 1928 aveva dedicato una delle sue opere più importanti, la Dottrina della costituzione, a un non ariano e cioè alla “Memoria del mio amico dott. Fritz Eisler di Amburgo, caduto il 27 settembre 1914”?. In una nuova edizione sparirà questa dedica, come le citazioni degli scritti di Erich Kaufmann nell’edizione del 1931 della Teologia politica del 1922?
Comunque, nonostante la sorprendente capacità di adattamento di Carl Schmitt, la quale arriva al punto di non citare negli indici delle sue opere quegli scritti che per lui oggi sono divenuti scomodi, come in ogni critica il positivo apprezzamento del padre della costituzione di Weimar Hugo Preuss (1930) e il riconoscimento della missione storica della chiesa cattolica in “Cattolicesimo romano e forma politica” (dapprima nel 1923), non lo si può liquidare come un opportunista più o meno abile. Non lo si può nemmeno considerare un erudito molto preparato ed intelligente e nemmeno uno scrittore straordinariamente poliedrico, al quale sempre riesce di addurre ragioni a sostegno della tesi che aveva appena combattuto, fornendo argomenti sorprendenti che aprono nuove prospettive. Ed egli è anche più che un docente di diritto pubblico, che sa manipolare i concetti giuridici in maniera tanto elegante quanto illusionistica. Carl Schmitt è un fenomeno, che deve essere preso molto sul serio, nonostante la sua fatale debolezza, che lo fa influenzare dalle forze dell’epoca sia mediante una presa delle distanze apparentemente superiore o mediante una polemica senza scrupoli e quindi doppiamente sensazionale oppure mediante una glorificazione inattesa e quindi presentata in maniera esagerata. Infatti in lui si evidenzia uno sviluppo tipico; i suoi problemi non sono quelli suggeriti dal temperamento di un individuo isolato, ma sono realmente questioni che vengono presentate dalla crisi del XIX secolo come posizioni fondamentali valide sia al punto di vista giuridico che sociale.
Carl Schmitt è stato tra i primi a identificare questa crisi, mentre il suo particolare campo di interesse, quello giuridico-politico, è stato il punto di partenza per concludere che era necessaria una riflessione fondamentale per poter comprendere la realtà e per poter delineare il suo cambiamento. Comunque egli, nonostante la sua acutezza non ha risolto la crisi. Egli si è limitato a contrapporre delle antitesi a quelle tesi che fino ad allora passavano per ovvie; esse però – in quanto risposte e reazioni – dipendono dai suoi predecessori presentati come discutibili. Egli ha investigato le irrealtà e le finzioni, che dominano il mondo attuale, ma non è stato capace di trovare la realtà; al massimo egli l’ha vista come una esigenza. Quindi la sua tendenza ad unirsi ad un movimento che emerge come antitesi dell’ordine apparente, da lui fino a quel momento intravisto, malgrado tutte le debolezze e vanità personali che esso svela, non è soltanto un caso personale, bensì una questione tragica. Carl Schmitt è solo un diagnostico delle malattie dell’epoca e della società, ma non è il loro guaritore. Egli ha sì l’idea di come potrebbe avvenire la guarigione, ma è un’idea troppo generale; egli conosce la direzione del cammino ma non sa dire precisamente dove si trovi questa via di salvezza.
In tutte le sue opere, egli pone il mondo, in maniera più o meno esplicita, diretta o indiretta, di fronte alla necessità di una decisione che possa ricostituire l’ordine dissolto o distrutto, oppure rifondarlo. Ma questa decisione rimane o puramente formale – è meglio infatti che si prenda una qualunque decisione, piuttosto che nessuna, e che continui ad imperare l’insopportabile anarchia – oppure questa decisione si lega a un ordine riconosciuto giusto solo sul piano teoretico, ma che nella pratica viene negato. L’esigenza della decisione non scioglie i vincoli di una concezione giuridica positivistica, che esaurisce tutto il diritto in maniera non problematica nella legge scritta in base ai pregiudizi ed alle idee dell’epoca, e alla quale il problema dei presupposti non scritti della legge appare come il cosiddetto “diritto naturale da tempo superato”. Questa esigenza supera anche i limiti di un normativismo astratto per il quale il diritto è una pura connessione di regole incondizionatamente valide, le quali non hanno alcun rapporto con la comunità vivente e con la storia. Ogni legge presuppone una decisione, e già all’atto della sua applicazione ad un caso determinato si evidenzia una inevitabile decisione.
Così per lui ogni diritto è un “diritto della situazione”, vale a dire il diritto di una data comunità e di una data situazione storica. Ciò presuppone una determinata “imposizione”. Auctoritas, non veritas facit legem – Carl Schmitt si preoccupa sempre di citare questa frase di Hobbes.
D’altra parte però il diritto, come egli chiaramente vede, non è una imposizione arbitraria – ed il pensiero giuridico normativista può essere tanto poco legittimato come quello decisionista, di nuovo riconosciuto da Schmitt e sottolineato nel suo significato, il quale evidenzia la decisione. Il diritto è al tempo stesso norma incondizionatamente valida, quale che sia il legame con qualsivoglia situazione, la cui forza non può essere derivata da nessun fatto e da nessun rapporto di potere. In uno scritto giovanile Lo Stato e il singolo (1914) Schmitt ha evidenziato questo carattere normativo e la dignità ed il compito dello Stato fu visto esattamente nel fatto che esso è il realizzatore del diritto, cosa che certo gli risulterà scomodo, in quanto oggi egli deride lo Stato di diritto considerandolo come una anticaglia liberale.
Ma qual è il contenuto di queste norme? Per Schmitt, una risposta non è semplice. Il contenuto può formare un diritto naturale razionalista con determinate esigenze di giustizia, di umanità e di razionalità, per cui la legge – in contrapposizione con un tipico decisionista come Hobbes – è una “norma di giustizia”, cioè non solo un comando da parte di chi detiene il massimo potere (Dittatura, seconda edizione, Monaco 1928, p. 22). I1 normativismo riconosce un valore determinante all’astrattezza e alla validità generale della norma “al di là della pura realtà e della concretezza del singolo caso reale” (Sui tre tipi…, pag. 13).
Fondamentalmente, la rappresentazione giuridica da cui Carl Schmitt parte è il normativismo astrattamente valido, che però nel corso della sua evoluzione egli attacca in maniera sempre più accanita. Ciò è del tutto comprensibile, in quanto questo normativismo è intimamente connesso – considerandolo nella maniera più pura dal punto di vista teoretico – con il positivismo ampiamente dominante nella moderna scienza giuridica tedesca. Ma dal momento che il diritto naturale viene semplicemente ignorato in quanto “mistica” metafisica e non scientifica oppure “fantasticheria, diventa norma la volontà incondizionatamente valida del legislatore statale. La legge da lui data e per tutti valida deve semplicemente essere applicata razionalmente e scientificamente; la situazione sulla quale la legge interviene appare come ovvia ed indiscussa. Ma cosa avviene, quando la situazione non è questa? E precisamente se la situazione presupposta coscientemente oppure inconsciamente come ovvia non sussiste più? Se la situazione normale in cui di nuovo dominino rappresentazioni giuridiche ovvie, la generale sicurezza e certezza, deve essere prima di tutto creata? Questa problematica è la questione fondamentale di Schmitt. La situazione abnorme, che comunque è la situazione del dopoguerra, sembra spingere verso il decisionismo come antitesi a quel normativismo che agisce anche nel positivismo con la sua fede in una ragione evidente o per lo meno in una legalità generale. La decisione viene considerata come creatrice di un ordine in cui si ritrova la situazione normale come presupposto del diritto, non la situazione normale per antonomasia, ma perlomeno una situazione sentita come normale.
La decisione viene “creata [normativisticamente]* dal nulla” (Teologia politica, prima ed. Monaco 1922, p. 56). E in che maniera essa si impone? Mediante la sua forza creatrice di un ordine. Non si tratta di una pura questione di arbitrio, ma dell’espressione di una esistenza vitale. Ma questa esistenza vitale in quanto portatrice della decisione cambia: essa può essere la fede della borghesia in ascesa nell’importanza decisiva della normazione dello Stato irrazionale mediante la pubblica discussione parlamentare; essa può anche mostrarsi nei moderni movimenti del fascismo e del bolscevismo in forma di mito, e precisamente il mito dell’onore e dell’unità nazionale ed il mito dell’ultima battaglia della umanità rappresentata dal proletariato contro i borghesi che bloccano lo sviluppo giusto e razionale (cfr. La situazione storico-spirituale dell’attuale parlamentarismo, II ed., Monaco, 1928). Se posso così esprimermi, l’elemento decisivo della decisione è che la sua norma è costituita dalla forza della prova e del successo. Ogni diritto determinato dalla decisione è quindi un diritto situazionale: alla norma appartiene infatti il legame ad una data situazione storica e sociale. Anche il normativismo astratto, cioè la contrapposizione del cosiddetto diritto puro contro la politica, la metafisica ecc., è solo una decisione politica camuffata, espressione di una fede nella precisa calcolabilità razionale della vita pubblica in un mondo ed in un tempo sicuri.
Questo legame tra norma ed esistenza, che si esprime nella capacità di decidere, ha portato Carl Schmitt alla sua celebre definizione delle categorie fondamentali del Politico. La capacità di distinguere tra amico e nemico è la forza politica per eccellenza. “Il nemico è l’altro, l’estraneo, e per definirlo ontologicamente, basta che egli sia qualcosa d’altro in un senso particolare ed intenso, e che sia estraneo, cosicché nel caso estremo sono possibili con lui dei conflitti i quali non possono essere risolti né con una previa normativa di carattere generale né con l’appello ad una situazione indivisa”. (Il concetto del Politico, citato secondo la IIa Edizione, Monaco, 1932, p.14 e ss). In questa definizione si deve notare in particolare che non necessariamente lo Stato deve essere elevato a soggetto del Politico. Quell’unità è l’unità politica, che ha la forza di imporre il potere della sua esistenza nella definizione vincente di amico e nemico – e quindi se una classe o un sindacato diviene abbastanza “potente” per prendere questa decisione nei confronti della pubblicità, ecco che esso è divenuto una unità politica. Al riguardo è del tutto indifferente in base a quali momenti “contenutistici” – per es. l’appartenenza ad una razza o ad una religione, la concorrenza ecc. – si arriva alla definizione del nemico. È la decisione come tale che è determinante – e in essa secondo Carl Schmitt si evidenzia il Politico. Un’unità che non è più capace di questa decisione perde la sua autonoma esistenza politica.
Questa determinazione della qualità esistenziale del politico, che non può essere annullata da alcuna normativa astratta, è così efficace che lascia aperta la possibilità ad un opportunismo del tutto vitalistico. Carl Schmitt si è sempre opposto all’esclusione reciproca di diritto e politica, e sempre egli ha mostrato come proprio il diritto apparentemente astratto è generato da decisioni concrete, come ogni costituzione è una determinata decisione politica fondamentale, e non un elenco di frasi scritte, che vengono interpretate con una cogente “razionalità” da una scienza che pretende di essere obiettiva (cfr. Dottrina della costituzione, Monaco 1928; Il custode della costituzione, Tubinga 1931). Egli stesso però soggiace al pericolo di glorificare il potere storicamente effettivo dell’epoca in quanto razionale, vale a dire quale fondamento esistenziale della decisione. Egli ha osservato come a causa di un astratto positivismo “scientifico”, privo stando a quel che si dice di contenuti politici e metafisici il diritto diviene incapace di determinare la reale vita reale del diritto e della comunità. Egli pone il diritto in una totale dipendenza dalla decisione politica del momento, dove la politica non è l’ordinamento generale dell’esistenza umana e sociale, ma una affermazione del potere. Egli ha smascherato senza riguardi il normativismo che vuole escludere ogni decisione e potere personale e quindi anche l’autorità, ma fa poi passare per diritto la tecnica di volta in volta usata per il sostegno del potere. Alla tesi del positivismo sedicente razionalista che in modo confuso mette sullo stesso piano in maniera la legge scritta e la norma, segue un positivismo vitalistico, per il quale la realtà dell’affermazione politica del potere fonda il diritto. Nel primo caso, ingenuamente la norma con le sue pretese di validità senza limiti di tempo viene messa sullo stesso piano con la transitoria “situazione normale” del XIX secolo, ma considerata come evidente nella sua contrapposizione tra Stato e individuo, nella sua separazione dei poteri, nel suo parlamentarismo ecc.; nel secondo caso la realtà politica del momento viene in maniera disperante elevata a norma.
Nel primo caso la scienza giuridica ed in particolare la dottrina del diritto pubblico sta accanto alla realtà pensando con concetti superati; nel secondo caso essa si trasforma nella legittimatrice attuale del diritto e nell’interprete “scientifica” delle odierne azioni di chi detiene il potere. Carl Schmitt scopre che il Führer il 30 giugno era anche giudice e che difendeva il diritto, avendo immediatamente creato il diritto stesso. (Deutsche Juristen-zeitung del 1° agosto) – e non si ricorda più Carl Schmitt come egli aveva precisamente affermato che “la forma è essenziale al diritto” e che – se il Führer deve essere considerato giudice – per lui “una norma generale decisoria in precedenza determinata” avrebbe dovuto costituire “l’unità di misura”? (Vedi: Dittatura, 2a edizione, p. 178 e 248). Carl Schmitt aveva quindi già confutato in precedenza dal punto di vista giuridico la sua apologia del primo agosto.
Egli potrebbe comunque dire che per lui è iniziata una nuova era con lo sviluppo del nazionalsocialismo quale portatore della decisione politica. Infatti il nazionalsocialismo gli ha fatto intravedere nuovamente un ordine contenutistico. Al riguardo non bisogna pensare troppo alla “dottrina costituzionale” nazionalsocialista da lui sviluppata (Stato, movimento, popolo, Amburgo, 1933) nella quale il movimento nazionalsocialista appare come il superamento dell’antitesi società (popolo) - Stato grazie alla sua esplicita pretesa di costituire al tempo stesso l’élite dominatrice dello Stato e l’élite del popolo, così come appare nel suo ultimo scritto “Sui tre tipi del pensiero giuridico” (apparso come primo fascicolo degli scritti dell’Accademia tedesca del diritto). Qui viene apparentemente superata la contrapposizione di decisionismo e normativismo fino ad allora sostenuta da Carl Schmitt, facendo ricorso al riconoscimento di un concetto di ordine basato sui contenuti. Questo ordine porta pure le decisioni le quali non creano più semplicemente un ordine in genere, come le norme e le leggi, che quindi non solo “valgono”, ma servono anche a determinati ambiti dell’ordinamento, per esempio le istituzioni e la famiglia. Con ciò sembra che venga attribuito al diritto un fondamento realmente fecondo sul piano sociale e metafisico e che vi sia un ritorno a quel concetto di ordine del medioevo cristiano dalla cui dissoluzione è sorta l’antitesi normativismo-decisionismo.
Il normativista fa riferimento all’idea di un ordine onnicomprensivo ma non è capace di dargli un contenuto. L’ordine è divenuto per lui una regola astratta, che non può comprendere la molteplicità dei diversi campi del mondo umano e così la realtà della norma viene semplicemente identificata con la volontà del legislatore statale nella cui definizione il liberalismo dominante del XIX secolo include la partecipazione del parlamento, della rappresentanza popolare, alla legislazione e alla garanzia dei diritti umani e di libertà. Questo normativismo è incapace di vedere il mondo concreto, in quanto la norma, la legge non si realizza da se stessa, ma ha bisogno di una istanza che la trasponga nella realtà. Perciò egli fa riferimento al decisionismo come controparte della dialettica. Questo vede solo la necessità della realizzazione e della decisione. “Solo la decisione fonda per il decisionista sia la norma che l’ordine” (p. 28). Se però ha avuto luogo la decisione che ha reso possibile la “pace, sicurezza e ordine” e quindi la vigenza delle norme, che ha posto fine a quello che era fino ad allora il disordine concreto, alla generale anarchia, alla “guerra di tutti contro tutti” di cui parla Hobbes, ecco che allora si evidenzia di nuovo il normativismo: infatti egli cerca di superare il provvisorio della decisione caduta dal nulla e determinata solo dal fine della produzione della sicurezza esterna e cerca parimenti di mostrarla con qualcosa di necessario, vale a dire di normativo e non solo come un elemento fattuale-temporaneo.
Finora Carl Schmitt si era mosso all’interno di questa antitesi. La sua lotta contro il liberalismo era determinata dal fatto che le decisioni alla base del liberalismo non corrispondevano più alla situazione attuale della società, in quanto nella lotta contro la sovrana decisione individuale e per il dominio della legge generale che garantisce l’individuo nella sua indipendenza non erano più adatte a creare “pace, sicurezza ed ordine”. Da quale prima era, cioè una corporazione rappresentativa formata da individui di élite, il parlamento si era ridotto ad un comitato di interessi e l’antica antitesi liberale individuo-Stato era ormai un relitto: lo Stato doveva ora essere difeso contro la dissoluzione ad opera di gruppi sociali organizzati e di rappresentanze di interessi, che minacciavano di distruggere la sua unità. Un superamento della crisi dello Stato però appariva possibile soltanto se, in luogo delle decisioni liberali irrigidite su di un normativismo irreale – le norme non corrispondevano più alla situazione, che era prevalente – e se in luogo di una mancanza concreta di decisione che portava all’anarchia fosse intervenuta una nuova decisione. Ma questa decisione doveva essere oggettiva e sostanziale, se veramente doveva fondare un ordine duraturo, altrimenti avrebbe costituito soltanto una pausa nella perpetua lotta dei differenti gruppi e titolari di interessi. Si doveva trovare una istanza ed un ordine che potesse fondare e giustificare questa decisione non solo fattualmente ma per il suo contenuto, in quanto la situazione era ancora più disperata di quella dell’epoca di Hobbes, che poteva avere ancora fede nel monarca assoluto quale restauratore di condizioni più sicure.
A partire da questo punto di vista, cioè che una decisione sorta dal nulla resti solo qualcosa di fattuale-casuale, una espressione di una isolata costellazione di potere, una cosa provvisoria e che si trattava di assumere nella decisione un legame con un ordine dato e oggettivo si può spiegare la svolta di Carl Schmitt nella direzione di un ordine sostanziale e realmente operante nei diversi ambiti di vita dell’uomo e della sua società. Nella sua teoria questa svolta è assolutamente vera, dato che annulla il precedente isolamento del diritto dai suoi contenuti fondamentali e riapre la via ad un diritto naturale metafisicamente fondato, ma in Carl Schmitt questo riconoscimento, vero in linea di principio, dei fondamenti essenziali di tutto il diritto e di ogni politica di potenza determinata da decisioni si unisce con delle identificazioni assolutamente problematiche. L’ordine naturale non viene così razionalisticamente ristretto con il normativismo ad una regola di ragione, che prescinde dalle comunità e dalle istituzioni concrete. In maniera assolutamente esatta esso viene visto come una concreta unità di ordinamento, il cui diritto serve ai diversi ambiti in maniera corrispondente al loro essere; Carl Schmitt comunque lo unisce a movimenti e a rappresentazioni politiche che nella prassi lo distruggono e lo dissolvono. “L’ordinamento concreto degli ordinamenti, l’istituzione delle istituzioni” (p. 47) diviene uno Stato inteso nel senso di Hegel. Lo Stato appare come “regno della eticità oggettiva e della ragione, il quale è in grado di porsi al di sopra della società borghese e di attrarla in sé dall’alto”. E quale portatore di questo Stato viene visto il popolo tedesco ritornato a sé nel nazionalsocialismo. Il nazionalsocialismo è stato però creato da Adolph Hitler, per cui lo Stato diviene “organo del capo del movimento”, cioè di Adolf Hitler (p. 67).
Determinate decisioni del potere politico divengono quindi semplicemente il fondamento dell’ordine. L’ordine che fonda e regge tutte le decisioni viene quindi identificato improvvisamente con una decisione concreta; la volontà politica di affermazione del potere propria di un movimento e del suo capo sono semplicemente indicate e glorificate in quanto creatrici di ordine ovverosia come decisioni che si originano dall’ordine.
In "Stato, movimento, popolo” Carl Schmitt ha tuttavia chiaramente visto l’impossibilità di fondare le pretese di dominio del nazionalsocialismo e di Adolf Hitler solo sulla fattuale capacità di decisione (p. 32 ss.). Egli pone la domanda: Su che cosa si fonda il legame tra capo e gregari nello Stato nazionalsocialista, su che cosa si fondano quindi i principi basilari dello Stato nazionalsocialista? E nella risposta si evidenzia che a lui non è riuscito di superare l’antitesi tra il decisionismo che caratterizza il potere fattuale e il normativismo astratto e idealistico.
“Noi cerchiamo un legame – così egli scrive (p. 46) – che sia più affidabile, più vitale e più profondo del vincolo ingannatore delle mutevoli lettere di mille articoli di legge. E dove altro potrebbe rinvenirsi se non in noi stessi e nella nostra natura?” In altre parole: nel riconoscimento del ruolo guida di Hitler consegue una affermazione di se stessi. Il Führer esercita il comando sulla base della identità di natura tra lui ed i gregari. Così ogni ordine è divenuto un ordine puramente naturale. La decisione è quindi la manifestazione di rapporti di forza naturali e di una concordanza di volontà risvegliata e scoperta dal Führer. Carl Schmitt giunge così ad un concetto naturalistico di ordine, che ha alla base l’identità naturale, cioè ad un rinnovamento della “volonté générale” di Rousseau nel senso di una forma adeguata ai tempi e fondata sulla razza. L’identità di natura realizza lo stesso miracolo della "volonté générale" di Rousseau che genera il contratto sociale. Essa fa assurgere al ruolo di sovrano tutti ed ognuno allo stesso tempo. Infatti nell’obbedienza ad Adolf Hitler ogni appartenente alla stessa razza acconsente a se stesso.
Carl Schmitt ha sempre ricercato la suprema istanza decisionale che potesse porre fine alla sua angoscia di fronte a quella anarchia che egli intravedeva dietro ad ogni facciata. Egli comunque era abbastanza perspicace per riconoscere a livello teorico l’insufficienza di una pura decisione che garantisse soltanto la pace esteriore. E così egli non si è limitato, nella sua conversione al nazionalsocialismo, di celebrarlo in quanto valida forza decisionale, alla maniera del Sovrano di Hobbes, ma ha anche cercato di scoprire in esso pure un ordinamento di contenuti sostanziali. Ma in questa scoperta la realtà si è rivoltata contro di lui: la sua apologia del 30 giugno si presenta infatti come una riduzione dell’ordine ad una volontà empirica e puramente fattuale ed occasionale, così come la sua riscoperta della concreta unità di ordinamento che rispetta tutte le istituzioni, a fronte del livellamento nazionalsocialista e della trasformazione di tutte le comunità e gruppi in strumenti del movimento totalizzante che determina lo Stato, appare piuttosto una finzione propagandistica. Nel nazionalsocialismo Carl Schmitt non ha scoperto un ordine sostanziale che annulla 1’antitesi tra diritto e politica ma – stanco per le continue analisi – ha glorificato una decisione vittoriosa. Nel suo scritto “Cattolicesimo romano e forma politica” egli aveva dieci anni prima celebrato la Chiesa in quanto rappresentante dell’umanità e della giustizia incarnate in Cristo e non nella concretezza vigente. Ma oggi egli considera il concetto di rappresentazione come una questione barocca, oggi per lui lo spirito è “presente”, vale a dire: la realtà concreta è razionale – e la realtà coincide con la capacità di dominare e di imporsi. Quindi Carl Schmitt oggi vede la sua missione nella interpretazione della realtà e nella sua giustificazione metafisica. La norma coincide con la decisione nell’ordine del potere costituito. Chi comanda, ha ragione, e così oggi Carl Schmitt è diventato il “giurista della corona” nazionalsocialista; questo perché il nazionalsocialismo è oggi la realtà tedesca.


Paul Müller - Colonia

Titolo originale: Entscheidung und Ordnung. Zu den Schriften von Carl Schmitt, in Schweizerische Rundschau. Monatschrift für Geistesleben und Kultur, 34. Jahrgang, 1. Oktober 1934, Heft 7, pp. 566-576. Paul Müller è uno pseudonimo di Waldemar Gurian. Traduzione di Luciano Loiacono.

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